Dall’Albana al Ruché, segnatevi questi vini

Albana e Pallagrello. Il primo era il vino del contadino, coltivato alla vecchia maniera, ossidato e dolcissimo come piaceva alla gente del posto. Ancor oggi cresce lungo le colline rocciose dello “spungone” che altro non è che l’Appennino di Romagna. L’altra, invece, era l’uva dei Borbone, amata da re Ferdinando IV che, si narra, la consumava quotidianamente. Popolare e aristocratico a confronto: hanno storie agli antipodi questi due vitigni italiani, crescono su terreni e luoghi distanti, eppure hanno in comune il fatto di essere stati riscoperti e rilanciati. Sono vitigni autoctoni, cioè figli di una terra ben circoscritta, difficili da far crescere altrove e ricchi di una tradizione rurale.

Perché erano caduti del dimenticatoio? I motivi sono più d’uno: la fillossera, l’insetto che per decenni dalla seconda metà dell’800 ha attaccato le radici delle vigne europee facendole morire, gli espianti degli anni ’50 che hanno portato al drastico ridimensionamento dei vitigni minori, e le scelte commerciali che per molto tempo hanno puntato su vitigni mainstream. Per fortuna, però, oggi sembra di essere di fronte al percorso inverso. Ed ecco così rispuntare sugli scaffali di enoteche e ristoranti il Bellone laziale, la Ribona cugina del Verdicchio e il Ruché principe minore del Piemonte sabaudo. Nel prossimo futuro, poi, si sentirà parlare con insistenza anche di uve come il Fogliatonda (nel Chianti), la rara Malvasia Rossa altoatesina, il Susumaniello salentino, lo Sciascinoso campano, il Bianchello del Metauro, il vicentino Vespaiolo di Breganze e il Grechetto di Todi. Insomma, la ricerca di uve misconosciute è destinata a proseguire, considerando il numero altissimo di vitigni autoctoni (quasi 1000) che fanno del nostro Paese il territorio con la maggiore biodiversità al mondo.

Ruché
Considerato il vino delle grandi occasioni, per decenni è rimasto all’interno delle tavole delle colline del Monferrato e altri sei comuni in provincia di Asti. L’ipotesi più diffusa affida la discendenza del Ruché a un antico uvaggio importato dalla Borgogna. È un “vitigno misconosciuto e simpatico”, detto con le parole del giornalista Mario Soldati. “Teresa” di Cascina Tavijn è un esempio della sua riscoperta. Si può servire con formaggi stagionati, come il Castelmagno, frattaglie e pasta ripiena come i ravioli del Plin.

Nosiola
Intensi profumi di frutta secca: è quello che si percepisce immergendo il naso in un bicchiere pieno di Nosiola. La patria silenziosa di questo vitigno emergente è il Trentino, in particolare la Valle dei Laghi e le colline di Trento e Pressano. Nonostante cresca in territorio alpino è perfetto se accompagnato da crudi di pesce e ostriche. Particolare la reinterpretazione di Elisabetta Foradori con macerazioni in anfora

Pignolo
Il Pignolo (detto anche Pignul) è un vitigno a bacca nera elegante, originario delle campagne collinari del Friuli intorno a Udine. Dopo aver rischiato l’estinzione a causa della fillossera ed essere stato lasciato da parte dei viticoltori della zona in quanto difficile da coltivare, è rinato grazie all’impegno di alcune cantine della zona. Fulvio Bressan, vignaiolo friulano deciso e sopra le righe, gli ha dedicato un’etichetta quasi omonima: Pignol.

Albana
Non è azzardato dire che, l’Albana, è un gran vitigno di Romagna. Ha una lunga tradizione alle spalle che percorre lo “spungone” romagnolo, ovvero una piccola catena di colline rocciose tra le province di Forlì e Cesena. La versione più interessante è sicuramente quella passita, in cui spesso si lascia che sui grappoli attecchisca la muffa nobile Botrytis Cinerea, ma ci sono anche ottimi esempi dell’Albana secco, come “Arcaica” di Paolo Francesconi.

Ribona
Siamo nelle Marche, in una lunga e stretta striscia di terra poco considerata dagli enoappassionati italiani: le Colline maceratesi. Questa è la piccola patria di un vitigno che per decenni è rimasto nel dimenticatoio – la Ribona (o Maceratino) – e che ora sta emergendo. Cugina del Verdicchio, quest’uva vinificata trova la sua collocazione ideale insieme alla cucina di mare. Tra i vignaioli pionieri di questa riscoperta ci sono Maria Grazia Sagretti e Massimo Carletti di Podere Sabbioni.

Bellone
Il Lazio riscopre un vitigno dell’Antica Roma. Il Bellone, chiamato anche Cacchione e citato addirittura negli scritti di Plinio come “uva pantastica”, sta vivendo una piacevole rinascita della zona dell’Agro Pontino. I suoi grossi grappoli crescono nelle campagne dei Castelli Romani, dai Monti Lepini fino alle coste verso il mare e spesso viene vinificato con interessanti sperimentazioni in botti di legno. Marco Carpineti è uno dei vignaioli pionieri di questa riscoperta.

Pallagrello
Scendendo più a Sud, nelle colline Caiatine della Campania, il Pallagrello è ormai divenuto un fenomeno di mercato. La sua storia passa per la Vigna del Ventaglio fatta piantare dai Borbone a San Leucio, a ridosso della Reggia di Caserta. Scomparso dopo la fillossera, è stato reimpiantato da diverse aziende nella sua doppia espressione a bacca bianca e nera. Nel primo caso, un esempio, è il Riccio Bianco della cantina Alepa.

Perricone
Eccoci nella Sicilia Occidentale. Il Perricone si trova da sempre nelle terre che dividono Palermo, Trapani e Agrigento. Come molte altre varietà viticole ha subito un drastico ridimensionamento a livello numerico con la stagione degli espianti, iniziata a metà del Novecento. Un nutrito gruppo di vignaioli, però, resiste e una decina di anni fa ha iniziato a riprendere la sua vinificazione. Marilena Barbera è una di questi. Legumi, affettati e formaggi saporiti sono l’accompagnamento perfetto.

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