Dall’Isola d’Elba il vino fatto con l’uva che riposa nel mare

Un vino nuovo, di 2500 anni fa. Si chiama Nesos e rappresenta la storia che vive nella contemporaneità e nella bottiglia, come grande esempio di come funziona l’impresa italiana: ossia la determinazione di microimprenditori – un’azienda familiare – che mette in piedi un progetto di innovazione, grazie alla collaborazione con il mondo della cultura e della ricerca universitaria.
Così quella che sembrava semplicemente una chimera del professor Attilio Scienza, docente di Viticoltura dell’Università degli Studi di Milano e appassionato oltre che di vini della loro storia, ha trovato una sponda in un piccolo produttore illuminato, Antonio Arrighi che ha un’azienda vitivinicola sull’Isola d’Elba.

Era un sogno, si è trasformato in un progetto e adesso è un vino. Si può dire senza scopo di lucro, visto che ne sono state prodotte appena 40 bottiglie, destinate quindi più alla conferma scientifica e allo stupore degli appassionati, che agli scaffali delle enoteche o alle cantine dei ristoranti.

Tutto nasce dagli studi di Scienza che un giorno racconta ad Arrighi di come gli Etruschi, popolo raffinato e gaudente attivo nella produzione enologica fin dal XII sec. a.C., facessero vino, forti di circa il centinaio di uve autoctone toscane. E di come all’Elba lo facessero in particolare con l’Ansonica, parente stretta, dati sul dna alla mano, delle uve nobili di Chios. Proprio sull’isola greca, l’uva veniva tenuta in acqua di mare prima di essere lasciata asciugare sui graticci e vinificata

Dal racconto storico si decise di passare alla pratica e oggi la potenza di quel vino mitico può in qualche modo rivivere nei calici. In un progetto che valorizza e favorisce la biodiversità, il territorio, le tradizioni e le produzioni locali.
Ansonica in purezza in cui si concentra storia, sperimentazione, territorio, passione.

A settembre l’esperimento, che riproduce la pratica dell’antica Grecia: i grappoli selezionatissimi (non dovevano presentare alcuna benché minima lacerazione della buccia perché il mare avrebbe danneggiato l’acino) sono stati adagiati – in piccole quantità per non schiacciarli – in nasse di vimini (“non ne fanno più molte, le abbiamo trovate in Sardegna dove le usano per la pesca” ha sottolineato Arrighi), lasciate nelle acque pulite dell’Elba per 5 giorni, fatte asciugare su graticci all’aria aperta. Poi ecco il passaggio delle uve in anfore di terracotta,  con tutte le bucce, dopo la separazione dei raspi. “La presenza di sale nell’uva, con effetto antiossidante e disinfettante – hanno spiegato i responsabili del progetto dell’Università di Siena – ha permesso di provare a non utilizzare solfiti, arrivando a produrre, dopo un anno in affinamento in bottiglia, un vino estremamente naturale, molto simile a quello prodotto 2500 anni fa”.

“La pratica delle anfore peraltro  – come ricorda l’archeologa Laura Pagliantini, dell’Università di Siena – era ampiamente usata all’Elba, come dimostrano gli scavi in corso dal 2012 a Porto Ferraio. Qui in una villa tardo repubblicana già si trovano tracce della lavorazione del vino che fermentava all’interno dei dolia. Per l’esattezza sono stati rinvenuti 6 orci bimillenari da circa 1500 litri l’uno”.

Il risultato? Lo spiega Angela Zinnai, del corso di viticoltura e enologia all’Università di Pisa. “Il mare è stato efficace nel rimuovere la pruina, sostanza cerosa che riveste gli acini. Analizzando le uve dopo il bagno a mare, si trova che i fenoli hanno una concentrazione doppia rispetto a quelli non sottoposti alle onde. Non perché il mare li raddoppi, ovviamente, ma perché vincendo le resistenze della buccia è possibile estrarne di più che nei normali processi”.
Ne traggono giovamento anche i composti odorosi: “Le analisi dei gas massa rivelano sentori di frutta matura, banana, ananas e note balsamiche. Si nota anche una riduzione dei contenuti acidici. Gli acidi sono stati salificati, creando armonia e equilibrio. L’acidità si sente meno ma non scompensa il prodotto per via dei fenoli”.

Analisi tecniche molto interessanti, ma dal punto di vista del bevitore? La degustazione, guidata dal giornalista enologico Aldo Fiordelli, della Guida dell’Espresso, rivela sentori di agrumi canditi e mandorla fresca. Anche il sale marino ha fatto la sua parte: “Non è solo una suggestione, il naso avverte sale, scoglio, oliva, salamoia” commenta il critico. E poi in bocca, “equilibrio e setosità, un peso importante per quanto riguarda la struttura”.
Insomma, all’emozione di assaggiare una cosa nuova e al tempo stesso antica, anche la scoperta di grande piacere per il palato.
Secondo Attilio Scienza il vino mostra tutte le caratteristiche adatte a un buon invecchiamento, anche se su questo punto non possiamo che aspettare.

L’esperimento è stato anche narrato in un documentario, Vinum Insulae, diretto e prodotto da Stefano Muti di Cosmomedia. Il docufilm è reduce dai successi del 26° Festival International Œnovidéo di Marsiglia, dove si è aggiudicato il premio come Miglior Corto e il riconoscimento degli enologi francesi della Revue des Œnologues, per l’originalità e il valore della sperimentazione

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